per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
Giornalista, corrispondente per Radiocor – Il Sole 24 Ore USA, AgenSir e Aska News da New York. Ha una lunga esperienza nella copertura di politica globale, diritti umani, migrazioni, cultura, religione e produzione di storie. Ha lavorato nell’ufficio stampa di Rita Borsellino e scrive per Città Nuova. È ambasciatrice di Religions for Peace International.
_____________________________
Cos’è per lei una buona notizia?
Innanzitutto, è una notizia non buonista, ma una notizia che sa raccontare la complessità, che cerca una comprensione molteplice della realtà, non univoca. Una buona notizia sa restituire speranza, sa raccontare stupore e sofferenza, sa scomodare chi legge. Nelle scuole di giornalismo si insegnano le 6 “s” che rendono la notizia di successo: sangue, sesso, soldi, salute, sport e spettacolo; io mi sono creata le mie 6 “s” alternative: storie, speranza, sacro, scomodo, stupore, sofferenza e poi social, una settima “s” che è strumento, ma indica, anche, la responsabilità sociale dell’informazione.
Qual è per lei il ruolo dell’informazione nel benessere della società?
Considero l’informazione fonte di benessere quando aiuta a sviluppare la libertà e la varietà del pensare e investiga l’essere di una persona, di una società o di una comunità, dove il bene è incluso. Per me il benessere equivale a complessità e a non avere timore della complessità. Per un periodo della mia vita, ho avuto la fortuna di lavorare nell’ufficio stampa di Rita Borsellino, la sorella di Paolo Borsellino, il giudice assassinato dalla mafia. Con lei c’era sempre questa sfida di ricordarci questo detto di Paolo, a proposito di come si incide nel benessere sociale di un contesto complesso come quello di Palermo: “Imparare ad amare le cose che non ci piacciono per poterle cambiare”. Vorrei proprio che l’informazione insegnasse ad amare quello che non ci piace, a conoscere quello che non ci piace, per poi poterlo cambiare.
Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?
Può esserlo ma ha bisogno di esercizio. A volte penso che come giornalisti non stiamo aiutando questo processo, perché cediamo alla tentazione del veloce e del non approfondire; cediamo alle pressioni editoriali, a ciò che ci fa guadagnare più like, più visibilità. Penso che una cosa bella di Mezzopieno, di un’associazione di giornalisti seria, sia quella di creare una comunità che sconfigga la solitudine e i mille conflitti vissuti da chi fa notizie. Le conflittualità nascono dalle solitudini, dal temere la bellezza varia del mondo, per cui ci rifugiamo nella partigianeria, mentre la molteplicità è l’espressione della realtà. Quando alla parola conflittualità sostituiremo la parola varietà, cesserà la paura e anche la necessità di doversi sempre barricare in una parte ed essere in lotta con l’altra. Cadiamo nella conflittualità quando non accettiamo un mondo vario, un mondo complesso, un mondo dove ha diritto di esistere la molteplicità e non un solo punto di vista.
Possiamo offrire alle persone la possibilità di guardare, analizzare, indagare la complessità senza temerla. Di fronte ad una differenza chiedersi prima “perché” e provare a superare la logica della ragione e del torto; perché c’è sempre uno spazio dove l’altro deve trovarsi e la diversità ha posto. Raccontare i fatti, se noi vi siamo veramente fedeli, rappresenta già questa molteplicità. Quando io racconto una storia, scatto una foto di un evento che coglierà magari il profilo; mentre un mio collega, a quello stesso evento, scatterà la foto dall’alto cogliendo una prospettiva diversa: sono queste molteplici prospettive che ci aiutano a comprendere e non sono prospettive escludenti, ma inclusive che aiutano a capire e discernere. Se tu non coltivi le varie prospettive e non le offri ai lettori o agli spettatori, all’altro manca un livello di giudizio, e di questo noi giornalisti siamo responsabili. Quando noi diventiamo di partito, diventiamo parziali, perdiamo l’idealità che ha acceso il nostro essere giornalisti, cioè quella di raccontare il mondo, di essere questo sguardo di conoscenza, di essere questa parola e non ci lasciamo più sorprendere dal fascino della differenza, perché abbiamo scelto a priori e quindi noi raccontiamo attraverso la nostra scelta e filtriamo.
Qual è il suo contributo per una buona informazione?
Scrivo storie che sappiano scavare nei fatti. Davanti alle situazioni più tragiche mi chiedo sempre se c’è un barlume di umanità che può emergere, e mi impegno a cercarlo con la stessa tenacia con cui investigo su un’illegalità o analizzo rapporti o dati, di cui sono davvero appassionata. Vivo negli States e ho vissuto l’era Trump e sto vivendo quella di Biden. Mi sono accorta e mi accorgo che non ci sono solo buoni da una parte e cattivi dall’altra, eterne vittime o eterni carnefici: ogni momento ci si può trasformare e si può passare quel guado con facilità estrema. Per questo la responsabilità della complessità ci deve appartenere sempre.
Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?
Cercare, cercare sempre questo barlume di umanità dentro le notizie, dentro la storia, dentro le mie giornate.
____________________
Leggi le altre testimonianze per la campagna Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
✔ Buone notizie cambiano il mondo. Firma la petizione per avere più informazione positiva in giornali e telegiornali https://www.change.org/p/per-avere-un-informazione-positiva-e-veritiera-in-giornali-e-telegiornali