per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
Docente di Politica Economica all’Università di Cagliari dove insegna Economia dell’Informazione ed Economia Comportamentale. I suoi interessi di ricerca riguardano la behavioral ed experimental economics, l’economia civile e le neuroscienze sociali e cognitive. Direttore del comitato scientifico e di indirizzo della SEC – Scuola di Economia Civile. Editorialista di Avvenire e de Il Sole 24 Ore dove cura la rubrica #MindTheEconomy. Ha pubblicato “I paradossi della fiducia” (2007, Il Mulino), “Ipersociali” (2022, Ecra) e “Parole che Fanno” (2022, Città Nuova).
Cos’è per lei una buona notizia?
Domanda interessante. Per me è una notizia che ispira, che dà una visione positiva del mondo e che crea fiducia negli altri e in sé stessi. Credo anche che una notizia positiva ci dia consapevolezza del fatto che abbiamo sempre la possibilità di avere un ruolo attivo nel mondo che ci circonda.
Qual è per lei il ruolo dell’informazione nel benessere della società?
È un ruolo molto complesso. Informare non vuol dire semplicemente trasmettere: bisogna tenere conto anche delle logiche proprie della comunicazione. Nell’atto di informare c’è la doppia responsabilità di raccontare il vero da un lato e rendere la rappresentazione del fatto il più possibile efficace dall’altro: l’economia comportamentale ci insegna infatti che una stessa informazione data in due modi diversi induce a scelte e reazioni differenti. Un comunicatore professionista non può non tenere conto di questa logica e deve essere consapevole che ha non solo il dovere di dire la verità, ma anche di scegliere come dirla perché il pubblico la riceva nel modo più efficace possibile.
Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?
Indubbiamente. Proprio perché la comunicazione ha la missione di informare e per tutto quanto detto prima, il giornalismo è uno strumento che avrebbe come esito la riduzione della conflittualità: se la rappresentazione dei fatti avviene in modo corretto si riduce la polarizzazione delle opinioni. Ma nella realtà ciò che accade è ben diverso: in alcuni casi non si tiene conto della logica occulta dell’informare e dei processi cognitivi di elaborazione in altri, invece, questi processi vengono volutamente strumentalizzati per generarla, la polarizzazione. Gli studi rivelano che le attività di debunking e fact checking generano un fenomeno di sfiducia nei confronti di tutti i comunicatori, generalizzandola. Questo può trasformarsi in un pericoloso circolo vizioso che mette a rischio le istituzioni democratiche. La vita nella democrazia e la partecipazione hanno senso infatti quando l’opinione pubblica è correttamente informata, non quando è asimmetrica e polarizzata. Oggi fortunatamente c’è molta letteratura accademica sull’esposizione selettiva alle informazioni, sulla trasparenza con cui ci vengono presentate, sulle logiche commerciali che vi ruotano intorno e che hanno dato vita al settore dell’economia dell’attenzione, che ci porta a stare sempre più connessi.
Qual è il suo contributo per una buona informazione?
Da un po’ di anni curo una rubrica domenicale sul Sole 24 Ore che si chiama Mind the economy. Ho iniziato facendo dei commenti legati all’attualità ma durante il periodo della pandemia mi sono reso conto che i lettori hanno bisogno di strumenti per capire le logiche dell’informazione, e non solo di opinioni. Così ho iniziato una serie di articoli tematici: da come vengono dati i numeri della scienza, alla percezione del rischio della pandemia, a come è cambiato il mondo del lavoro e il fenomeno delle great resignation (grandi dimissioni, ndr.), o lo studio delle asimmetrie informative. Ho abbandonato quindi il tono un po’ polemico del commentatore del quotidiano per assumere una posizione più distaccata mettendoci uno sforzo di obiettività, facilitata dal fatto che ricorro a studi scientifici consultabili. Nel tempo si è creata una comunità di lettori che ha ben colto lo spirito dei miei articoli: quello che provo a fare è dare strumenti che possano smascherare le logiche occulte del processo comunicativo, tema per altro del mio ultimo libro, Parole che fanno.
Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?
È un atteggiamento nei confronti della vita che mi viene abbastanza naturale, spontaneo direi. Ho un imprinting culturale e familiare che mi permette di credere nella frase: “Tutto concorre al bene per chi cerca il bene”. C’è sempre la possibilità di leggere in chiave positiva anche un evento negativo. In una logica storica ampia si possono interpretare fatti che nell’immediato sono dolorosi e negativi in modo molto diverso. Dipende anche, certamente, dalle esperienze che si fanno nella vita e questo può essere anche questione di fortuna. Ma c’è una sorta di muscolo percettivo che va allenato a cercare il lato positivo: non in modo ingenuo o superficiale, ma seguendo il desiderio di guardare oltre l’apparenza delle cose. Noi tutti possiamo avere un piccolo impatto sulla Storia. Non c’è nulla di peggio, a mio parere, che distruggere la consapevolezza che ognuno di noi possa cambiare le cose a modo suo.
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