per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
Giornalista, saggista e autore televisivo, esperto in temi internazionali e questioni religiose. Consulente di direzione del settimanale Credere e del mensile Jesus ed editorialista di Avvenire dove ha lavorato come vicecaporedattore per 5 anni. Nel 1993-94 ha guidato, primo laico nella storia del giornale, il settimanale locale Il Resegone; dal 2001 al 2013 ha diretto il mensile Mondo e Missione. Dal 2017 insegna Media e Informazione al Dams dell’Università Cattolica di Brescia. Autore di libri tradotti anche all’estero.
Cos’è per lei una buona notizia?
È il racconto di un fatto, o di una situazione, presentato in modo tale da far emergere, nonostante problemi e difficoltà, la possibilità che esista un futuro buono per la collettività. La buona notizia non è il (consolatorio) raggio di sole tra le nuvole, non sono 30 righe zuccherose in cronaca, collocate lì per “bilanciare” un elenco di furti, scippi, omicidi… La buona notizia rappresenta l’occasione per narrare la realtà, senza negare un grammo del tanto male che c’è, da un altro punto di vista. Spesso può risultare sorprendente.
Qual è per lei il ruolo dell’informazione nel benessere della società?
È un ruolo essenziale, che purtroppo oggi come giornalisti non giochiamo al meglio. Perché? Se parliamo del “ben-essere” della società (qualcosa che non si definisce solo in numeri o come PIL, bensì in termini di qualità delle relazioni), l’informazione gioca un ruolo-chiave. Una società informata è quella che non solo ha a disposizione una pluralità di fonti informative (cosa che nelle dittature non accade), ma nella quale tanto gli operatori dell’informazione quanto i cittadini sono consapevoli degli effetti sociali, dell’impatto dell’informazione. Oggi non sempre accade. Nell’era della velocità, i media sono esposti al rischio della superficialità e, nella corsa ad accumulare consensi, traffico e pubblicità, a cadere nella trappola del click-baiting o dell’informazione che enfatizza il negativo. Nelle redazioni a lungo (oggi forse meno) hanno trionfato la regola delle 3 S (sangue, soldi, sesso) e l’idea che solo le cattive notizie (in termini di audience) fossero buone notizie. Il risultato è che – lo dicono ricerche scientifiche internazionali – la gente va allontanandosi sempre più da un’informazione che avverte come sbilanciata sul negativo e ansiogena.
Come se ne esce allora?
I primi a doversi responsabilizzare sono i giornalisti e gli editori (incluse le grandi piattaforme che si muovono come media ma non si assumono le responsabilità che ne derivano): c’è bisogno come il pane di più spazio per le buone notizie e le buone pratiche, quello che all’estero si chiama il giornalismo costruttivo o il giornalismo delle soluzioni. Un’informazione troppo virata sul negativo (la denuncia di scandali o lo smascheramento di malefatte, entrambe operazioni più che legittime e preziose) e non bilanciata da notizie che parlano di città ben amministrate e di “sana” politica rischia di ingenerare un sospetto indifferenziato nei confronti della classe politica. Forse i tassi calanti degli elettori alle urne, in misura che deve destare allarme, derivano anche da questo. Il discorso, però, non finisce qui: grazie ai social, ciascuno di noi – specie chi è “opinion leader” in varie forme – può diventare una fonte e un punto di riferimento nel mare dei social media. Ognuno di noi può utilizzare il suo account di Facebook, Instagram, Twitter, TikTok ecc. per seminare buone notizie o per veicolare fake news, incitare all’odio e via di questo passo. Con risultati diametralmente opposti. Oggi assistiamo ad un pericoloso fenomeno di polarizzazione che, di sicuro, non favorisce una discussione libera e franca, con ricadute inevitabili sulla qualità delle relazioni e, quindi, anche sul “ben-essere” della società.
Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?
Sì, a patto che si tratti di un “giornalismo civile”, ossia di un modo di informare che considera il destinatario contemporaneamente cliente e cittadino. Se le due cose stanno insieme, abbiamo un’informazione di qualità, per la quale il fruitore è disposto a pagare e che, proprio perché di qualità e quindi frutto di lavoro paziente, meticoloso, corale, agli editori costa molto produrre ma che, in definitiva, rende, produce profitto, proprio in ragione del livello qualitativo della stessa. Pensiamo ai grandi quotidiani anglofoni, dal New York Times al Guardian, che stanno superando il trauma della transizione digitale in questo modo, con inchieste e reportages che fanno scuola. Ma, se stiamo in Italia, possiamo considerare due esempi riusciti di giornalismo civile: “Buone notizie” del Corriere della Sera e l’inserto “Economia civile” di Avvenire. Anche dal punto di vista dei risultati economici, oltre che essere meritevoli sotto il profilo dell’offerta informativa, si tratta indubbiamente di due scommesse vinte.
Qual è il suo contributo per una buona informazione?
Dal momento che il movimento Mezzopieno è molto legata all’India, rispondo con le parole del celebre antropologo indiano Arjun Appadurai, il quale sostiene che: «Dobbiamo essere mediatori, catalizzatori e promotori dell’etica della possibilità a fronte dell’etica della probabilità, di un impegno morale fondato sulla convinzione che una politica genuinamente democratica non può basarsi sulla valanga di numeri circa la popolazione, la povertà, il profitto e il saccheggio che minaccia di soffocare ogni ottimismo circa la vita e il mondo. Occorre, piuttosto incrementare l’etica della possibilità, che può offrire una base più estesa per il miglioramento della qualità della vita sul pianeta». Nel mio modo di essere operatore dell’informazione cerco di far questo: dare spazio a persone e storie di speranza. Per 12 anni sono stato direttore della rivista Mondo e Missione, mensile del Pime, che nel suo Dna ha proprio quello di mostrare non solo come il Vangelo, accolto nella vita, cambia le persone e la storia, ma anche come, misteriosamente, tante persone che pure non appartengono a nessuna Chiesa o nemmeno credono in Dio nutrono in sé la convinzione che valga la pena spendersi per gli altri, allo scopo – come diceva Baden Powell – di lasciare ai nostri eredi un mondo migliore di come lo abbiamo trovato.
Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?
Significa approcciare la realtà con uno sguardo che non si ferma alla superficie, che non si spaventa delle situazioni problematiche, che non si rassegna al male. Piuttosto, lo sforzo vuol essere quello di indagare le cause e, soprattutto, tentare di esplorare soluzioni, mostrando come esistano esperienze positive che incoraggiano all’impegno e stimolano ad avere fiducia: in sé, negli altri, nel futuro. Non è facile, ma val la pena provarci sempre. È quello che cerco di trasmettere anche ai miei studenti e studentesse del Dams dell’Università Cattolica di Brescia, dove insegno Media e Informazione. Il notevole interesse che registro per queste tematiche mi fa ben sperare.
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