per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
Giornalista, scrive principalmente di questioni sociali e di lavoro, di volontariato e cooperazione. Ha lavorato nel settimanale La Voce del Popolo, per l’ufficio stampa dell’Amministrazione comunale di Brescia e coordinato le attività di BiblioLavoro, associazione culturale delle Cisl della Lombardia. Dal 2018 si occupa della comunicazione della Cisl di Brescia.
Cos’è per lei una buona notizia?
Tutto ciò che viene raccontato con accuratezza e misura. C’è tanto buon giornalismo in giro e il buon giornalismo produce buone notizie. Una buona notizia non si accontenta di come gli vengono apparecchiati i fatti, tiene sempre conto di diversi punti di vista, accetta la fatica che l’approfondimento pretende. È evidente che puntando su emozioni primarie le cattive notizie sono più facili da far passare. Le buone notizie sollecitano emozioni secondarie, più complesse, che si attivano per processi e non per istinto. Al momento sembrano meglio piazzati i surfisti dell’informazione ma, alla lunga, le cattive notizie – che sono quelle scritte, filmate, raccontate male, che si fermano ai “si dice” – diventano faticose da sopportare anche per lettori-spettatori-ascoltatori poco esigenti.
Qual è per lei il ruolo dell’informazione nel benessere della società?
Siamo esposti ogni giorno ad una enorme quantità di informazioni alla quale reagiamo sempre più distrattamente. L’economia dell’attenzione è diventata il terreno di un’aspra competizione che ruota attorno a tre, quattro parole chiave: veloce, sensazionale, emozionale, identitaria. Ne è derivata una progressiva riduzione della qualità dell’informazione e il conseguente impoverimento del suo ruolo nella crescita di consapevolezza, dei singoli e della comunità nel suo insieme, che è alla base del ben-essere sociale. Assieme dunque all’affermazione teorica di un ruolo sicuramente rilevante e delicato dell’informazione in questa prospettiva, è necessario chiederci in che modo il sistema dei mass media possa riconquistare un ruolo sostanziale.
Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?
Da solo il giornalismo non può certo cambiare il paradigma del “combattimento” che sembra governare oggi comportamenti pubblici e privati, personali e collettivi. Penso però che dovremmo sforzarci di raccontare il conflitto per quello che è, vale a dire un elemento positivo delle dinamiche sociali, attraverso il quale si mettono a confronto obiettivi, visioni, strategie: saperlo affrontare, gestire e superare ci rende persone migliori. Spostare l’accento sul valore positivo del conflitto rende evidenti i limiti della conflittualità, quello stato di tensione permanente che toglie il respiro alla partecipazione e all’ascolto. Raccontare il presente cambiando la prospettiva, cercando differenti punti di vista: credo sia questo il contributo più vero che il giornalismo può offrire alla costruzione di un mondo migliore.
Qual è il suo contributo per una buona informazione?
Lavoro nel mondo della comunicazione sindacale, conflittuale per natura, verrebbe da dire. Ma quello è il portato storico di una parte soltanto del movimento sindacale, quella che fa del conflitto la ragione della sua esistenza, piuttosto che lo strumento per raggiungere risultati per chi rappresenta, e di riflesso per la società. Fare buona informazione significa, per me, dare centralità alla persona, cercare e riconoscere il positivo in ogni posizione, spiegare il reale, tenere conto del contesto e disintossicarmi da una terminologia sterilmente divisiva.
Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?
È un investimento di fiducia, un invito all’apertura. Vedere il bicchiere mezzo pieno influenza il modo di vivere, aiuta a rigenerare i rapporti e a costruirne di nuovi, mette entusiasmo in tutto ciò che si fa. È uno sguardo contagioso che innesca complicità sorprendenti, che ci tiene lontani dai “borseggiatori di speranza”.
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