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Giornalista vaticanista, docente di comunicazione all’Università Pontificia della Santa Croce (Roma), Vicepresidente dell’Associazione Giuseppe De Carli. Ha scritto, tra gli altri, il libro “Attacco all’informazione. Un approccio etico alla copertura mediatica del terrorismo” ( Edusc, 2006) in cui tenta di comprendere in che modo i giornalisti e gli operatori della comunicazione possono offrire un involontario sostegno a chi persegue un’attività illecita e fomentare l’odio o diventare strumento di propaganda del male.
Qual è il ruolo dell’informazione sul benessere della società?
È un ruolo fondamentale, fa parte dei principi basilari dell’attività informativa favorire il benessere della società
e di chi la compone. Fare informazione, in fondo, significa anche formare le persone, trasmettere loro un valore aggiunto di conoscenza che prima non avevano. In questo è insita la speciale responsabilità degli operatori
dell’informazione. Occorre tener conto che il risvolto del nostro lavoro incide sulla vita di esseri umani concreti, che nella società possono a loro volta condizionare le vite di altre persone. Non si può scindere l’attività
informativa dai suoi effetti, per cui non si tratta soltanto di una professione tout court, ma di un compito formativo in generale che nel portare crescita porta benessere.
Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?
Il giornalismo dovrebbe necessariamente essere uno strumento che crea fiducia tra le persone perché si rivolge
all’ambito sociale delle relazioni. Il giornalismo mette in relazione le vite delle persone e questo dinamismo deve superare l’aspetto negativo e conflittuale se vuole fare avanzare la società. L’odio e le divisioni, infatti, sono a tutti gli effetti un fallimento delle relazioni tra persone. Qui si inserisce il compito del giornalismo ben fatto: raccontare per risolvere i conflitti, non alimentarli. Non si può essere indifferenti rispetto a ciò che accade nella società, ma questo interesse va trasmesso con l’intenzione di apportare un contributo di crescita a beneficio di tutti.
Cos’è per lei una buona notizia? Tre elementi essenziali di una buona notizia.
La buona notizia è innanzitutto vera e poi è stata verificata; è trasmessa per apportare una conoscenza in più nel lettore e nel pubblico di riferimento della propria attività. Si può raccontare anche il male ma lo si può raccontare “positivamente”: questa può sembrare una contraddizione, ma non lo è se chi fa informazione favorisce in chi legge la possibilità di fare qualcosa per risolvere questo male. La buona informazione propone delle soluzioni ai problemi. La buona notizia è quella propositiva e costruttiva. Vera, dunque, per quanto riguarda l’esistenza dell’accaduto. Verificata, per ciò che concerne l’ambito di attività di chi la approfondisce e
ne certifica la verità e il contesto. Vera, verificata e costruttiva, direi.
Qual è il suo contributo per una buona informazione?
Quando comunico cerco di farlo seguendo i tre canoni di cui parlavo prima. Cerco di immaginarmi il destinatario del mio scritto e l’effetto che ciò che sto per pubblicare potrà avere sulle persone che lo leggeranno. Provo a pensare a quale contributo posso dare con il mio racconto e tento di togliere spazio alle supposizioni, alle ipotesi e alle aspirazioni personali. Il mondo infatti, anche se spesso ci dispiace, va come deve andare e non ne siamo noi i padroni, per cui mettersi in atteggiamento di umiltà facilità la possibilità di intercettare le necessità degli altri, piuttosto che le nostre.
Insegno comunicazione in una Facoltà ecclesiastica, in particolare una materia che si chiama “giornalismo di
opinione”: provo a imparare insieme ai miei studenti a scrivere editoriali che possano comunicare con spirito costruttivo una specifica identità nell’ambito della comunicazione istituzionale della Chiesa.
Sui social, dove necessariamente comunico anche idee personali, seguo l’approccio della “disputa felice”, una
straordinaria intuizione del mio amico e collega Bruno Mastroianni. Si tratta di impegnarsi per disinnescare i conflitti nelle interazioni che capita di avere anche con sconosciuti, accompagnando la discussione, quasi cercando il confronto con coloro che non sono d’accordo, e così crescere reciprocamente grazie alle prospettive e ai differenti approcci rispetto alle questioni che si pongono. Questo vale anche per le comunicazioni quotidiane che ci capita di avere di persona, come l’unico modo per sentirci pienamente umani.
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